A ruga da Piergula
A ruga da Piergula

Tributo ai miei vicini di un tempo e agli amici di sempre

 Francavilla Angitola oltre che essere storicamente divisa da un invisibile muro che distingueva i francavillesi in “dirtuoti e pendinuoti” è suddivisa in tanti rioni, che in dialetto chiamiamo, “rughi”.

Ognuno di essi, come tante piccole contrade, ha un nome e nel tempo è stato caratterizzato dalle vicende dei suoi abitanti.

 La via in cui sono nato e nella quale per tanti anni ho vissuto, vico II le Grazie, era nell’ambito di uno dei rioni più popolosi del borgo medioevale di Pendino, ossia "a ruga da Piergula".
Quando da Roma, città che amo, e in cui vivo da moltissimi anni, torno a Francavilla Angitola è forte il bisogno di andare a visitare i luoghi a me molto cari, la chiesa della Madonna delle Grazie e i suoi vicoletti adiacenti, il Calvario, a Frischia, “avanti Fiumara, “supa o chianu”( il piano di Brossi) e ovviamente “a ruga da Piergula”.

L’entusiasmo con cui, a passo spedito, raggiungo Pendino è subito sostituito da un grande senso di vuoto che nel giro di pochi minuti diventa tristezza.

Non è nostalgia di quei tempi, ma della viva socialità, nostalgia di tutta quella umanità che animava “a ruga”, di quella grande famiglia allargata che nel bene e nel male condivideva tutto.

Mi prende una stretta al cuore quando vedo le porte chiuse e le case quasi tutte vuote, e se la visita è nei mesi invernali, la desolazione.

Guardo le case una per una e, per ognuna di esse, ricordo in modo molto nitido le famiglie che le abitavano e le loro vicende.

Ed ecco che, all’improvviso, ho la sensazione che “a ruga” si rianimi e, i suoi abitanti, anche quelli che ormai non ci sono più da molto tempo, escono dalle loro case per salutarmi.
E’ passato tanto tempo ma loro sono ancora li, con il loro caratteristico modo di vestire, con le loro consolidate e a volte discutibili manie e con il loro sorriso con il quale esprimono la loro gioia per poter riabbracciare “nu pendinuotu” che hanno visto crescere.

I primi a salutarmi sono “zi Sabetta e zi Pietru”.
Comincia zi Sabetta:

<A Peppinieju, Cuomu stai ? >
<E mammata e pajatta stannu buoni? >
<I frata e i suori tua? >
<Cuomu ti truovi a Roma?>
< Chi fai? >(nel senso di che lavoro svolgi)
<Vieni assettati ca fazzu u cafè>,

continua zi Pietru dandomi del voi:

<cuntatimi n’cuna cosa, chi mi diciti?>
< È bella Roma?>
< U lavoru l’aviti luntanu da casa?>.

Insieme con loro c’è la famiglia della figlia Concetta, cumpara Peppinu Bambino e come la chiamavamo tutti, Angeluzza.

Il Calvario

Man mano si avvicinano tutti, e tutti mi rivolgono le stesse domande, cumpara Vincenzino Niesi e la moglie Stella e i suoi figli, mastru Cicciu Sorrenti e la moglie Teresa, seguiti dal figlio Vicenzinu e dalla moglie Maria Scardamaglia, arrivano anche i fratelli Cicciu e N’tuoni Rondinelli, sbucano anche le due cugine Concetta e Teresa Rondinelli, cummara Francisca Ielapi e Fiorentina.

Sentito l’intenso vocio, escono anche cumpara N’tuoni Ielapi e la moglie cummara Teresa Salatino.

Si affacciano anche cumpara Foca Salatino con la moglie Teresa e i figli Maria e Antonio e contemporaneamte fanno capolino cumpara Foca Acetta con la moglie Anna.

Ci sono anche i miei cugini Antonio e Pino Anello forse per fare l’ennesima partita di pallone nello spiazzo adiacente alla chiesa della Madonna delle grazie o magari per andare a raccogliere l’origano “o serruni”.

Siamo in tanti e ci sediamo tutti insieme, chi, come “cumpara Cicciu Rondinelli”, “supa” la finestra del forno di “cummara Lucia” davanti “a cummara Francisca”, chi “supa a petra “ (oggi purtroppo rimossa) di fianco all’ingresso di mia zia Maria e difronte a casa di mio padre Ezio e di quella di mia zia Teresa, altri ancora sul gradino al lato della casa di mastru Cicciu Sorrenti, altri ancora sui gradini delle scale o sulle sedie, come si faceva un tempo durante le giornate primaverili e nelle sere d’estate.

Date le risposte, ognuno di loro, prima mi racconta del suo stato di salute e poi, a seguito delle mie domande, mi dà delle informazioni sui loro cari emigrati in Italia o all’estero.

Dopo pochi minuti stiamo già ricordando insieme le tante marachelle che da bambino e da
adolescente combinavo e delle botte, che a seguito di quelle, quotidianamente ricevevo.
Qualcuno come faceva allora, sentiti i miei strilli di dolore, mi domanda “cuomu jienu alici
stanotta?”.

Ricordiamo i giochi che facevamo noi ragazzi e di quanto era bello ritrovarsi nelle sere d’estate, tutti insieme, mentre si godeva il fresco e si respirava l'aria salubre che una leggera brezza portava dal mare e dalle campagne limitrofe.

In quelle sere la piccola comunità della “ruga” condivideva sogni e speranze e raccontava le vicende quotidiane, quelle che erano le incombenze della campagna con il suo rigido calendario agricolo e ascoltava i racconti dei tempi che furono e delle vicende che l'avevano vista protagonista o di cui aveva sentito parlare.

Chiacchierando s’è fatto tardi e voglio passare dalla Madonna delle grazie, per pregare ma anche per ricordare mio nonno, Giuseppe Teti, detto sbulica.

Devo immergermi in quel luogo che rappresenta il cuore di pendino e di tutti i suoi abitanti.

La chiesa dove intere generazioni hanno pregato, ricevuto i sacramenti e, attraverso loro, riso e pianto e nella quale molti hanno chiesto e ricevuto dalla Madonna conforto e miracoli.

Devo correre e saluto tutti con grandissimo affetto e li stringo tutti in un ideale abbraccio. Sento già la nostalgia della loro semplicità, della loro umanità ma devo correre.

Vico II Le Grazie

Davanti la chiesa trovo i miei amici e compagni di giochi, oltre che spesso, anche compagni di scuola.

Ci sono Michele Ventrice, Antonio Gaccetta, Armando Salatino, Domenico Drogo, Pino e Domenico Simonetti con il cugino Pino, Vincenzo Lorè, Ciccio Rollo e Vincenzo Talora, forse, mi aspettavano per giocare ancora una volta “a liberatu”.

Escono per salutarmi anche cummara Filomena e il marito Antonio Gaccetta.

Cummara Filomena in particolare oltre a chiedermi notizie sullo stato di salute dei miei genitori mi chiede anche se ricordavo di quando mi dava “u vozzarieju” per andare a riempirlo di acqua fresca alla fonte della Frischia.

In chiesa troverò sicuramente mio nonno Giuseppe Teti e mastru N’tuoni Ventrici che,
accompagnati dalle note dell’organo suonato da cummara Rina, cantano il Magnificat “a Signura” ed io non posso e non voglio rinunciare ad assistere e a vedere con quanta fede e trasporto lo fanno.

Estasiato, con la testa che mi gira come se avessi bevuto qualche bicchiere di “vinu e zibibbu” esco dalla chiesa e incontro cummara Marianna Gemelli e cummara Rina Simonetti che saluto con grande stima e affetto.

Per un attimo ho rivisto la mia gente, i miei vicini e ho ascoltato la loro voce e i loro racconti per poi rendermi conto che purtroppo “a ruga da Piergula” è vuota e disabitata; non mi resta che prendere atto che quelli qui raccontati sono solo i miei ricordi.

Ricordi che sono dentro di me e come il mio sangue scorrono nelle mie vene fino ad arrivare al mio cervello e al mio cuore perché io possa vivere nella consapevolezza del valore delle mie origini e della solidità delle mie radici.

La fontana alla Frischia

 

 

Avere buoni vicini di casa è come avere una casa più grande.

(proverbio cinese)

 

 

La Madonna delle grazie

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